“Sulla Massachusets Avenue (…) c’era l’enorme, affascinante sala da ballo Roseland State Ballroom. Grandi manifesti posti all’entrata annunciavano che orchestre famose in tutto il Paese, sia bianche che negre, si erano esibite in quel locale. Quando passai di là per la prima volta, l’attrazione della settimana seguente (‘Prossimamente qui!’) era Glenn Miller. Ricordo di aver subito pensato come, ai balli della scuola secondaria di Mason, la musica dell’intera serata era stata quella dei dischi di Glenn Miller. (…) Non sapevo ancora quanto sarei diventato di casa lì al Roseland.”
Quando fu chiamato a sostituire il lustrascarpe del Roseland Theatre di Boston, che aveva lasciato il posto dall’oggi al domani, Malcolm X restò folgorato: la sala da ballo illuminata, l’enorme pavimento tirato a lucido, i musicisti di Benny Goodman che scherzavano e ridevano tra loro mentre sistemavano i leggii e accordavano gli strumenti. Sera dopo sera, i giganti della musica swing, che aveva imparato ad amare attraverso i dischi, si esibivano lì, davanti a lui, e venivano a farsi lucidare le scarpe prima di iniziare: Duke Ellington, Count Basie, Lester Young, Lionel Hampton, Cootie Williams, Jimmie Lunceford…
Ma il vero spettacolo iniziava quando entravano in pista i ballerini. Neri e bianchi insieme, senza alcuna distinzione, si scatenavano al ritmo forsennato del lindy hop (il ballo swing nato alla fine degli Anni Venti tra i neri del quartiere newyorkese di Harlem), lanciandosi in passi vorticosi e improvvisati, con movimenti così sciolti che era impossibile non restarne contagiati: “Il riflettore passava dalla luce rosa a quella gialla, verde e blu, inquadrando le coppie che ballavano il lindy hop come se fossero impazzite. ‘Dai, forza! Dai! Forza! Dai!’ Forza!’ urlava la gente all’orchestra e questa ci dava davvero dentro”.
Una passione incontenibile quella per il ballo, che durò qualche ann0 e che portò il giovane Malcolm, ormai trasferitosi a New York, a frequentare sale da ballo come il mitico “Savoy Ballroom”, che in confronto faceva apparire modesta quella di Boston: “Quando ero partito da Lansing non sapevo ballare, ma ora volteggiavo sulla pista (…) facendo piroettare le ragazzine intorno ai miei fianchi o sulle mie spalle e facendo sfoggio dei passi più sorprendenti. Parecchie volte (…) l’orchestra quasi smise di suonare e tutti lasciavano la pista per star lì a guardare con gli occhi sgranati”.
Poi, tanto velocemente quanto era iniziata, l’epoca del ballo finì. Malcolm prese altre strade, che lo portarono a frequentare i bassifondi di New York scivolando sempre più in un’esistenza ai margini della legalità. Sarà l’esperienza del carcere a segnare il punto di svolta, con la conversione all’Islam e la consapevolezza del potere che l’uomo bianco aveva da sempre esercitato nei confronti del popolo nero, relegato a razza inferiore nella vita e nella storia.
L’autobiografia di Malcolm X (Malcolm X con Alex Haley, “Autobiografia”, BUR La Storia Le Storie 2020) è una delle più belle in assoluto, non solo per come emerge la figura del protagonista ma anche per la forza del suo stile narrativo: un vero pugno nello stomaco, duro e senza sconti. Il libro è stato scritto in collaborazione conAlex Haley, autore tra l’altro del famoso romanzo “Radici”.