Ci sono tanti esempi di romanzi o racconti costruiti con una struttura particolare, nella quale cioè il narratore principale non è il protagonista della vicenda. Si parla in questo caso di “vanishing narrator”, cioè di un narratore che “scompare” perché oscurato generalmente dalla figura – di solito molto più fascinosa e ingombrante – del vero protagonista della storia.
In molti grandi romanzi americani si ritrova questa formula. Pensiamo ad esempio a Il Grande Gatsby, nel quale l'”io narrante” Nick Carraway, moralista, puritano e conformista, esprime una visione del mondo opposta a quella di Gatsby ma allo stesso tempo ne subisce, pagina dopo pagina, il forte ascendente. Oppure a Tutti gli uomini del re, scritto nel 1946 da Robert Penn Warren, o a A Separate Peace, romanzo di formazione del 1959 opera di John Knowles: nel primo è il reporter Jack Burden a raccontare la storia del politico Willie Stark, mentre nel secondo è Gene, adolescente geloso e introverso.
Sono ricorsi a questo espediente anche Chaim Potok in Danny l’eletto, Umberto Eco ne Il nome della rosa, William Faulkner in Assalonne, Assalonne! e, in tempi molto più recenti, Elena Ferrante in L’amica geniale, solo per citarne alcuni. Esso consente da un lato di esprimere in maniera quasi “plastica” il fatto che ogni narrazione è sempre una questione di prospettiva, e la “meta-fiction” che si crea attraverso un narratore consapevole che racconta le vicende di qualcun altro può dar luogo a una tensione bella e intensa, onesta e disarmante al tempo stesso.
Dall’altro, storie di questo tipo hanno spesso a che fare con un’ossessione, quella del narratore nei confronti del suo alter ego, il protagonista: in una forma o nell’altra, si parla sempre di carisma, di gelosia, di desiderio. Di sentimenti molto, troppo umani, che rendono le dinamiche che si creano sulla carta tra i due personaggi più credibili e avvincenti.