Parola di Haruki Murakami, sett’anni appena compiuti, quattordici romanzi e una manciata di racconti all’attivo, da Norvegian Wood a Kafka sulla spiaggia, da Dance Dance Dance a 1Q984: quest’ultima è una profonda riflessione sulla scrittura, nella quale lo spregiudicato editore Komatsu propone al protagonista, un introverso professore di matematica, un lavoro da ghostwriter al limite della legalità perchè il testo da scrivere è destinato a un concorso per giovani esordienti.
A ragione ritenuto uno dei più grandi narratori viventi, Murakami ha raccontato spesso cosa significhi per lui quel viaggio misterioso e sempre nuovo che è appunto la scrittura.
Prima di tutto si tratta, appunto, di un viaggio. La nostra storia è come un’automobile, sul quale il lettore deve aver voglia di salire: la destinazione è ignota, prima di tutto allo scrittore stesso. È per questo che si scrive, per sapere come andrà a finire.
Perché il lettore abbia voglia di salire sulla nostra auto, o sulla nostra astronave se preferite, bisogna sapergli comunicare i nostri sogni. Sognare è il lavoro quotidiano di ogni narratore, significa saper trovare quell’elemento di magia che trasforma un fatto banale in qualcosa di vivo e vivido, il più possibile ricco di colori, profumi, dettagli.
Bisogna saper osservare il mondo intorno a noi: una scena alla quale abbiamo assistito, una persona che abbiamo incontrato, un’esperienza che ci è capitata. Aprire gli occhi e guardare, registrare anche i minimi particolari piuttosto che giudicare e correre subito alle conlcusioni. E avere fiducia nella propria capacità di mettere insieme tutti i pezzi del puzzle per comporre una bella storia.
Infine la cosa più importante, quello che Murakami ritiene il senso più vero e profondo del mestiere di scrivere: far emergere la dignità dell’anima di ogni individuo e illuminarla attraverso le parole, per evitare che il Sistema le imprigioni nella sua rete e le umili. Scrivere storie, storie di vita e di morte, storie d’amore, storie che fanno piangere e tremare di paura o contorcersi dalle risate, non vuol dire altro che presevare, esaltare e tramandare l’unicità di ogni essere umano.
Foto di Markus Jans per The Times